21 de abril de 2017

L'architetto del genocidio australe

Intervista a José Luis Alonso Marchante, scrittore, “La causa dei popoli”, nº. 3, aprile 2017, traduzione Alessandro Michelucci

Pochi popoli indigeni sono stati dimenticati (o per meglio dire, ignorati) come quelli della Terra del Fuoco, che furono massacrati dai coloni cileni e argentini fra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del secolo successivo.
Sono stati quasi completamente cancellati da un genocidio che molto raramente è stato oggetto di discussione: perfino in Cile e in Argentina se ne è parlato pochissimo, sebbene alcuni l'avessero denunciato e documentato. Negli ultimi anni, però, la loro tragedia dimenticata ha guadagnato un certo spazio nel dibattito politico cileno. Ma questo, nel migliore dei casi, produrrebbe un riconoscimento limitato ai due paesi sudamericani coinvolti nella questione. La possibilità che questo genocidio venga riconosciuto a livello internazionale rimane quanto mai remota. Fra coloro che si stanno impegnando per raggiungere questo obiettivo spicca José Luis Alonso Marchante, che ha scritto il libro fondamentale sul tema (“Menéndez, rey de la Patagonia”, Catalonia, 2014). L'opera ricostruisce la vita di José Menéndez, immigrato spagnolo, che insieme ad altri coloni si impadronì in modo fraudolento di vasti territori situati nella Patagonia cilena e argentina.  Inoltre sottolinea il ruolo centrale che Menéndez svolse nello sterminio dei popoli fuegini.

Mujer Selk'nam, fotografia coloreada por Carlos Alberto Villarroel Barria (Gusinde, 1922)

Alonso Marchante, spagnolo di Gijón, è uno dei promotori dell'appello che chiede al governo cileno di riconoscere il genocidio dei Selk’nam. La questione viene attualmente dibattuta dal Parlamento cileno, in seguito a un progetto di legge che chiede il riconoscimento del genocidio allargandolo a tutti i popoli fuegini: Aóni-kenk, Selk'nam, Kawésqar e Yagán. L’intervista che segue, tratta dalla rivista cilena Punto Final (811, 22 agosto 2014), è stata realizzata dallo scrittore Alejandro Lavquén. Lo ringraziamo per averci permesso di riprodurla.
Come nasce il tuo interesse per la storia della Patagonia?
Sono sempre stato interessato ai temi legati all'immigrazione. Io sono originario delle Asturie, mia moglie è argentina. La prima volta che sono andato a Buenos Aires ho visitato il Centro Asturiano, dove si trova un busto di José Menéndez con una targa che lo definisce "pioniere del progresso economico della Patagonia". Questo personaggio mi interessava moltissimo. Mi chiedevo come fosse possibile che un contadino asturiano senza arte né parte potesse essere diventato un uomo così potente. Così ho cominciato a fare ricerche sulla sua vita.
Che idea avevi della Patagonia?
Per noi europei la Patagonia è un luogo leggendario con un paesaggio affascinante situato alla fine del mondo. Un luogo mitico, direi. Io pensavo agli esploratori, per esempio a Magellano, che percorrendo per la prima volta lo stretto che oggi porta il suo nome aveva visto i fuochi coi quali i Selk'nam comunicavano fra loro. Questa l'idea che avevo della Patagonia.

Grupo Selk'nam en las cercanías del lago Kakenchow (Lucas Bridges, 1912)

Il genocidio degli indigeni era conosciuto in Europa?
Tutti sanno che i popoli indigeni delle Americhe sono stati vittime della colonizzazione fin dall'inizio. Ma quello che mi ha colpito è che in Patagonia lo sterminio era avvenuto in tempi molto recenti. Non parliamo del 1500 o del 1600, ma di un periodo che va dalla fine del diciannovesimo secolo all'inizio del ventesimo. In termini storici è come dire ieri. È stata un brutta sorpresa, soprattutto dopo che avevo cominciato a studiare la vita di Menéndez e la sua partecipazione al massacro dei popoli indigeni.
Il tuo libro contiene testimonianze o documenti inediti?
Certamente. Per me era molto importante raccogliere le testimonianze dei contemporanei. Per quanto riguarda lo sterminio dei Selk'nam, per esempio, ho riportato le testimonianze dei salesiani, che avevano una missione situata vicino alle fattorie di José Menéndez. Quando uscivano trovavano spesso dei cadaveri di selk'nam che erano stati uccisi col fucile. Si tratta di testimonianze autorevoli. Per quanto riguarda le condizioni degli uomini che lavoravano nelle fattorie – un altro tema che mi interessa molto – ho utilizzato le testimonianze dei militari e della polizia. Questi non avevano nessuna simpatia per loro, ma restavano a bocca aperta quando vedevano in quali condizioni dovevano lavorare.
Hai potuto parlare con i discendenti di Menéndez o di altri allevatori?
Sono entrato in contatto con i suoi eredi che vivono in Spagna. Mi hanno fornito delle testimonianze molto preziose. Nella fattoria che José Menéndez aveva nella Terra del Fuoco, Primera Argentina, c'era un capetto scozzese che si chiamava Alexander Mac Lennan, detto "Chanco Colorado". Fra la gente di Punta Arenas era tristemente noto come cacciatore di indigeni, cosa di cui si vantava. Sono riuscito a parlare con un suo pronipote. Mi ha lasciato di sasso quando mi ha detto che oggi, grazie a quello che avevano fatto Menendez e gli altri latifondisti, nella Terra del Fuoco non ci sono rivendicazioni indigene come in altre regioni del Cile o dell'Argentina. Parole ripugnanti.

José Menéndez (1846-1918), el "rey de la Patagonia" (Museo Regional Magallanes)

Quindi nessuno dei discendenti cerca di ristabilire la verità storica?
Purtroppo no. Qualche anno fa Osvaldo Bayer, il celebre storico argentino, ha incontrato Federico Braun, il proprietario de La Anónima, la compagnia fondata da José Menéndez e Mauricio Braun. Quando Bayer gli ha detto che avrebbe potuto almeno rivolgere delle scuse per lo ster-minio, gli ha risposto che lui era nato negli anni Quaranta e che non aveva niente a che fare con quella storia. Un comportamento ben diverso da quello di ditte tedesche come Mercedes o Bayer, che impiegarono degli schiavi, ma oggi finanziano musei e fondazioni per far conoscere quelle pagine tragiche della propria storia. Esiste una responsabilità, una memoria storica da recuperare.
Per quanto riguarda i salesiani, sembra che abbiano avuto un ruolo piuttosto controverso. Quali furono loro rapporti con gli indigeni?
I salesiani gestivano una segheria sull'isola Dawson ed esportavano il legno nelle Malvine. Per questa attività si servivano degli indigeni. I primi salesiani impiantarono delle missioni nella Terra del Fuoco e mantennero un atteggiamento molto critico nei confronti dei latifondisti. Volevano davvero proteggerli e al tempo stesso evangelizzarli, perché credevano che questo fosse un modo per aiutarli. Ma poi la situazione mutò radicalmente: i missionari si arresero al potere economico degli allevatori, tanto che la seconda generazione di salesiani fu completamente sottomessa alla loro volontà. Fu allora che si cominciò a scrivere una storia dove gli allevatori venivano dipinti come alfieri del progresso. I salesiani hanno dato un contributo decisivo a questa falsificazione storica.
Mujeres y niñas selk'nam deportadas en la misión salesiana de isla Dawson, Chile (Bocco de Petris, 1898)

Secondo le tue ricerche, quanta colpa può essere addebitata ai governi dell'epoca?
Molta, senza dubbio. Le leggi cilene e argentine per la colonizzazione, che ho studiato a fondo, fissavano un limite di 30.000 ettari per le terre da affittare ai coloni, perché si voleva che le fattorie per l'allevamento del bestiame impiantate dagli immigrati europei fossero piuttosto piccole, come in Australia. Ma Menéndez, Braun e gli altri corruppero il governo argentino e quello cileno in modo da poter ottenere terre più grandi, che ovviamente appartenevano ai loro abitanti originari. José Menéndez era un uomo potente che si muoveva con estrema disinvoltura negli ambienti politici di Santiago e Buenos Aires, arrivando a tenere a libro paga i governatori della Patagonia. In Cile Mariano Guerrero Bascuñan, che quando lasciò la vita politica si stabilì a Santiago per lavorare con gli allevatori. In Argentina Carlos Moyano, governatore di Santa Cruz, che fece lo stesso. Erano procacciatori di terre. I governi dell'epoca hanno responsabilità ben precise, perché permisero ogni tipo di abuso.
Quindi i governi erano a conoscenza di questi crimini?
I governatori che arrivavano a Punta Arenas erano in buona fede. Si trovavano davanti due tipi di ingiustizie: l'accaparramento di terre e lo sterminio degli indigeni. Dopo le prime proteste, però, si schieravano dalla parte dei latifondisti, grazie al potere politico ed economico di Menéndez. Quando vedevano i soldi cambiavano subito idea.

Niños yámanas, Expedición científica francesa al Cabo de Hornos, 1882

Se ho capito bene fu praticata anche la schiavitù…
Sì, gli indigeni venivano catturati e venduti all'asta nel centro di Punta Arenas, proprio come in un mercato de schiavi. Questo accadeva nel 1895, quando in Cile la schiavitù era già stata abolita da molto tempo. Una pagina vergognosa per questa città. La cosa fu denunciata anche all'epoca: quello che racconto nel libro deriva da testimonianze contemporanee. Infatti la questione finì in tribunale, ma poi, grazie al potere politico dei latifondisti, fu archiviata.
E gli abitanti di oggi, in che modo si pongono davanti a questa storia?
Nel 2009 e nel 2011 sono stato là, nella zona di Punta Arenas (Patagonia cilena, ndt) . Ho visitato anche la Patagonia argentina. Secondo me esiste una grande differenza fra i due paesi. In Argentina nessuno penserebbe mai di intitolare una strada a José Menéndez o a Mauricio Braun. A Punta Arenas, invece, il centro della città canta le lodi di questi pionieri. Ci sono ancora i loro palazzi. In realtà le loro famiglie non abitano più a Punta Arenas da molto tempo: si sono trasferite a Buenos Aires o a Santiago, dove possono gestire molto meglio le proprie attività. Mi ha sorpreso che la città fosse piena di riferimenti alla storia ufficiale, perché questo contrasta con l'opinione del cittadino comune, che sa bene quanto sia stata falsificata la storia. Gli allevatori non si limitaronoa sterminare gli indigeni e a rubare le loro terre, ma stravolsero anche l'equilibrio ecologico della regione.

Edición chilena, Catalonia, del libro "Menéndez, rey de la Patagonia"